Vacanze a Malindi A.D. 2054


Mezzo secolo fa lo chiamavano "Toblerone"
Mezzo secolo fa lo chiamavano "Toblerone"

 

VACANZE A MALINDI A.D. 2054

Racconto semiserio e tragicomico

di Freddie del Curatolo

 

Il viaggio era stato abbastanza disagevole: le hostess robot della Uzbekistain Airlines erano andate in corto circuito, una dopo l’altra, un paio d’ore dopo il decollo.

Dapprima avevano iniziato a servire il the e il caffè bollente, con il solito getto dal dito indice della mano (destra caffè, sinistra the), addosso ai passeggeri invece che nelle tazze.

Poi a una di loro si è invertito il programma dello sparecchiamento con quello dell’intrattenimento erotico per i clienti della Superfirst class.

Ne aveva fatto le spese un pensionato che a momenti ci restava secco, mentre dalla testa dell’aereo si sentiva reclamare: “quella forchetta te la metto io nel didietro, brutto ammasso di lamiere”.

Altre due si inseguivano tra le poltrone, armate di scopettone strappando tutte le mascherine per l’ossigeno e parlando contemporaneamente sette lingue in stile “L’Esorcista”.

Alla fine per i viaggiatori era stato quasi un sollievo vederle cadere con fragore di metalli e qualche ronzio di resa. Il volo era proseguito tra spuntini self-service e le assicurazioni del comandante quattordicenne John Katana Baraghelli: “Benvenuti su “African Air Commander”, l’aerogame di realtà reale. Oggi abbiamo scelto la rotta C, stiamo giocando a livello di difficoltà medio e all’altezza del Sudan riceveremo un bonus di 30 mila chilometri che porterà il Comandante di questo velivolo in sesta posizione nella graduatoria mondiale online dei piloti di charter. Ci scusiamo per l’inconveniente delle hostess robot, al ritorno vedremo di rimediare proponendo un concorso a premi con la possibilità di un viaggio sulla scialuppa-shuttle sopra le piramidi d’Egitto, con scalo nell’oasi virtuale di Luxor”.

L’alba sul Kilimanjaro innevato fu uno spettacolo che ci colse impreparati.

Tutto quel bianco accecante e il fucsia striato del cielo fecero stropicciare gli occhi di chi si risvegliava e modulare flebili suoni di stupore.

Indirizzai il finestrino ottico in direzione delle pendici della grande montagna e attivai lo zoom.

Vidi cervi, daini, lo stambecco reale, l’orso bianco e le tracce dello Yeti Masai. Per chi fosse riuscito a fotografarlo, c’era in premio una fotocamera digitale da 980 megapixel.

La neve ricopriva in parte anche il parco dell’Amboseli. Mi avevano detto che ci sarebbe stato pericolo di ghiacciate, andando a Malindi in gennaio, ma io avevo scelto questo viaggio per vedere gli animali: l’arrivo della lince maculata in savana, il leone costiero, la giraffa domestica e le altre specie mutanti del terzo millennio africano.

A me della tanto decantata Atlantide dell’Oceano Indiano non importava un granchè. Ci ero stato da bambino con i miei, ma allora c’era ancora la spiaggia di Silversand e si poteva fare il bagno.

Sbarcammo all’aeroporto di Mombasa alle otto del mattino.

Il rullotrasporto computerizzato si era bloccato, quindi fummo costretti a camminare con i bagagli, recuperati con la case-card dal ventre dell’aereo, per duecento metri lungo un bracciotunnel con temperatura inferiore allo zero.

L’inverno africano non scherza per niente.

Nelle capsule-dogana invece il riscaldamento funzionava a palla. Come al solito i raggi infrarossi mi spogliarono (qualcuno se la rideva per le dimensioni del mio organo sessuale) mi esaminarono e trovarono qualcosa che non andava.

Una boccetta di collirio e la lima per le unghie.

Si accese una luce blu ad intermittenza e partì un suono arabeggiante di sirena.

Mi sentivo all’interno di un jukebox. Arrivò l’ufficiale di dogana, un uomo di colore mingherlino che si muoveva su un monopattino elettrico con il visore a cristalli liquidi.

Comunicò attraverso il monitor, senza aprire la capsulona in cui ero prigioniero.

“Bocetta colirio contro regole, non possibile trasportare corpi liquidi”, mi disse con voce metallica, dopo aver azionato il traduttore simultaneo.

“Sorry - feci io - non lo sapevo”

“Impossibile – disse il traduttore dell’ufficiale – sanno anche bambini. Poi c’è coltelino”

“E’ una lima per le unghie”

“Coltelino”

“Lima per le unghie”

“Quanto pagare?”

“Tienitela”

L’ufficiale azionò un tasto particolare.

“Buona permanenza in Kenya, hakuna matata” e altri due minuti di minchiate varie.

“Grazie”

La capsulona si aprì e io finalmente guadagnai l’uscita dell’aeroporto. La bora di Mombasa mi graffiò da subito.

I tassisti impellicciati alzarono gli occhi dai loro tablet.

“Nǐ xūyào chūzū chē ma?”, mi disse uno di loro.

“Ak máte ísť do Malindi ťa tam vezmem!”, aggiunse un altro.

Parlavano in cinese, slovacco, turco.

Non ce n’è uno che sappia l’italiano.

Poi spuntò un vecchietto ricurvo, con gli occhi spiritati.

“Italiano? Mezzo secolo fa ce n’erano tanti…io facevo il beach boys, mi chiamavano Toblerone…”

“Toblerone?”

“Sì, per via del mio cioccolatone in mezzo alle gambe. Ora me lo lego alla coscia con una fascia elastica…vuoi vedere?”

“No, lascia perdere grazie. E ora, che lavoro fai?”

“Niente, sono disoccupato. Sono troppo vecchio per imparare a sciare o a guidare lo skilift”

In quel mentre arrivò un Malindi Shuttle a due piani. Si entrava inserendo la carta di credito a fianco della portiera. Infilai la carta ma il meccanismo si blocca.

“Oh porca putt..”

Arrivò il conducente, sferrò due calcioni alla portiera, e l’elefante tecnologico di lamiera mi sputò fuori la carta e si aprì. Ero contento che qualcosa del Kenya fosse rimasto com’era.

Usciti dall’aeroporto, il bus imboccò la tangenziale e poi cercò di entrare nel tunnel che passava sotto il canale del porto. Ma il mega svincolo sottomarino della città era impraticabile. Due carretti mkokoteni che trasportavano uno patate e uno carbone, si erano scontrati ribaltandosi e i due conducenti stavano ancora litigando e si attendeva l’arrivo della polizia.

“Mi hai schiacciato dieci chili di patate”, diceva uno.

“E facci il purè, imbecille. Piuttosto, mi hai sbriciolato il carbone!”

“Tiè, cucinati le patate al cartoccio, cretino!”

Il problema era che da quando i cinesi avevano risolto i problemi di viabilità con queste opere monumentali, non esistevano più percorsi alternativi. Quindi dovemmo attendere due ore e mezzo all’addiaccio.

“Scusateci, c’è un guasto all’impianto di riscaldamento del bus”, avvertì il conducente.

Per fortuna alla tv trasmettevano un documentario sugli chalet dello Tsavo Est in russo con sottotitoli in cantonese. Al mio fianco era seduta una coppia di coreani, sbarcati con la speranza di vedere l’aurora boreale.

Davanti una scolaresca norvegese si preoccupava della tenuta dei portasci sul tetto del veicolo.

Arrivammo a Malindi prima di sera. Vedere il creek di Kilifi ghiacciato al tramonto fu uno spettacolo incredibile.

All’altezza di Mida, il conducente scese per mettere le catene al bus.

Ma non aveva quelle originali, si era portato delle catene con il lucchetto che aveva preso in prestito nella villa di un mzungu.

Arrivammo a Malindi a dieci all’ora, mentre le biciclette guidate da giovani impellicciati, ci sorpassavano allegramente.

All’altezza dell’aeroporto Flavio I, la nebbia ci accolse.

Era una cappa di smog.

Le insegne luminose cinesi degli edifici guidarono il bus verso il centro, per scaricare ognuno dei passeggeri.

Passammo davanti al White Mountain, l’esclusivo pub-ristorante e discoteca tra le piste.

Poi ci fermammo al Karen Freezer e al Brr Brr.

C’era anche il Pata-Agonia che era pieno, pienissimo di clienti anziani ma tutti completamente congelati.

“Ma come fanno quelli a resistere?”, chiesi al driver.

“Ma loro sono residenti di tanti anni fa, sono stati ibernati lì per loro volontà”

“Ah, ecco”

Io chiesi di essere scaricato al White Mammuth, l’affascinante resort di un artista toscano di 112 anni che faceva bellissime sculture di ghiaccio che ritraevano animali ormai estinti come il rinoceronte, la giraffa e il giaguaro. Ma non ci si poteva arrivare. La strada finiva alla piazzetta del cambio, che era diventata una rocca sul mare che mi ricordava Saint Malò, in Bretagna. C’erano i bar che promettevano cioccolata calda e punch al mango.

“E ora come si fa ad andare oltre?”, chiesi al guidatore.

“O prende l’aliscafo, oppure si cala nel passaggio sottomarino”

E’ proprio come mi avevano raccontato, dopo che l’Oceano Indiano da questa parte si era mangiato la spiaggia ed era entrato negli hotel, Silversand e Casuarina sprofondarono sotto il mare e per non perdere tutto, gli imprenditori con un colpo di genio che solo noi italiani riusciamo ad avere quando siamo veramente nella merda, crearono la prima località turistica sottomarina dell’Africa e del mondo.

Prima di scendere, cercai i cambisti in nero.

Mi si avvicinò un mzungu, pensai che li stesse cercando anche lui.

“Russian? Rumen? Where you come from?”, dalla pronuncia allucinante, non poteva che essere un mio connazionale.

“Sono italiano come lei, buongiorno”

“Ah, bene, che piacere! Mi chiamo Simba, sono nato a Frosinone ma vivo qui da vent’anni. Vuoi scellini? Oggi il cambio è buono…!”

“Ma, guarda, aspetterei i musulmani che girano sempre qui”

“Giravano, vorrai dire…ora amministrano banche, uno è proprietario di Malindi Tv…i cambisti siamo io e un altro che si chiama Tommaso ma tutti lo conoscono come Abarigani”

Che cosa strana. Cambiai i soldi e mi diressi verso il tunnel sottomarino.

Ingresso mille scellini, ah però…

Il tunnel era pressurizzato e riscaldato, pieno di finestre di vetro, a destra e a sinistra.

Da una parte si poteva entrare nei bar, nei ristoranti, nelle boutique. Ecco I Love Pesce, poi l’Ostricheria, il Baby Marlin.

Dall’altra parte c’era il mondo sotto il mare. Ma vidi anche le baracche del Curio Market, i venditori di frutti di mare, di salvagenti e mute da sub. Non ci credevo: erano rivestiti con scafandri e respiravano tramite lunghissimi tubi. Mi fermai al Coral Key e incontrai la console italiana, Maria Vittoria Vancini. Gentilissima, mi spiegò ogni cosa: “Alla fine stiamo bene qua sotto, il turismo si è riattivato ed abbiamo anche più libertà. L’unico problema è la fornitura d’ossigeno della Power & Air che ogni tanto si blocca. Dobbiamo avere sempre tante bombole di riserva piene, altrimenti c’è la fuga generale in superficie”

“Immagino che il diving vada per la maggiore…ma per chi vuole la spiaggia come fate?”

“Li portiamo a Venezia 2, sono degli isolotti che emergono al largo di Mayungu, ovviamente con sole artificiale a led”

“Ah, sì…li conoscevo con un altro nome”

Salutai la console e mi avviai verso il parco marino.

Qui trovai un altro italiano, un certo Oscar, con un chioschetto di cianfrusaglie.

“Vuoi uscire sott’acqua? – mi chiese – ti noleggio lo scafandro. Dai, prova l’emozione! Solo 1000 scellini l’ora”

Mi feci convincere e indossai la tuta da palombaro con un tubo lungo cinquanta metri. Eccomi nel regno di Nettuno!

Con grande emozione mi resi conto di non essere l’unico mzungu.

Era pieno di turisti subacquei!

C’erano donne sdraiate su lettini incastrati tra i coralli che prendevano il finto sole con speciali scafandri abbronzanti, una aveva un’aragosta al guinzaglio e se la accarezzava dolcemente, un’altra non riusciva a stare sul fondo perché le grandi labbra finte la riportavano a galla.

C’era chi faceva la Settimana Enigmistica in e-book impermeabile.

Dietro a uno scoglio vidi anche un uomo di una certa età che aveva trovato una ragazza “diversa da tutte le altre” e se la stava spassando…ma, oddio! Quella era veramente diversa dalle altre donne!

Era una sirena nera!

E non aveva lo scafandro!

Una malaya mutante!

In quel momento mi si fecero incontro due ragazzotti locali chiedendomi se volevo alghe da fumare o polvere di corallo da sniffare.

Erano beach boys, anche loro sprovvisti di maschere o boccaglio.

Come facevano a respirare?

Mi accerchiarono, sparandomi bolle in faccia, mentre la sirena mi si strusciava di fianco con le sue squame sensuali.

Mostri marini, aiuto!

Arrivò in mio soccorso un vecchio un po’ grasso con tantissimi capelli bianchi, che se ne stava comodamente seduto dentro una grande palla pressurizzata che rotolava qua e là.

“Caro turista – mi disse – sono vent’anni che i giriama si sono abituati a vivere sotto il mare. Pur di campare, una volta imparavano l’italiano in dieci minuti, il russo in un giorno e il cinese in una settimana, vuoi che in vent’anni, pur di venderti qualcosa, non abbiano imparato a respirare sott’acqua?”.